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tre libri sul comodino

Mazzucato: Lo stato innovatoreEra da un po’ di tempo che non leggevo un saggio con una visione radicalmente nuova: non che ne legga moltissimi, ma se dovessi dire l’ultima lettura che mi ha fatto questo effetto è stato “Il mondo è piatto” del premio Pulitzer Thomas Friedman.

La visione che mi ha svelato Mariana Mazzucato nel suo Lo stato innovatore è questa:

Dietro la maggior parte delle innovazioni non c’è un’azienda, ma uno stato.

Mai l’avrei immaginato, e così è – secondo quanto sostiene il saggio – per l’intera popolazione mondiale.

E il perché mi riguarda direttamente, dato che mi occupo di comunicazione: lo stato (tutti gli stati, anche la California) è un pessimo comunicatore.

Queste tesi mi fanno piacere due volte… al di là del fatto che preferirei non far dipendere la mia esistenza di chi agisce esclusivamente in nome del profitto (si chiami Bayer o Google o Apple), penso infatti che:

1 – Vi siano aree economiche fondamentali, in cui gli operatori privati non hanno interesse ad entrare – non a caso il libro parla molto dell’industria farmaceutica, i cui manager hanno da tempo dimenticato la Ricerca & Sviluppo, presi come sono a ricomprarsi ogni anno le proprie azioni, così da diventare da ricchi a ultraricchi

2 – La storia del libero mercato sia una bufala bella e buona, vedere questo falso mito dimostrato scientificamente – vedi il caso degli USA e delle agenzie Arpa e D-Arpa – mi rassicura. Penso che l’economia, e le nostre esistenze, abbiano bisogno di un interlocutore più forte e più rilevante di qualsiasi azienda

Il libro si fa leggere con facilità, e pare abbia attirato anche linteresse del premier Matteo Renzi.

Aggiungo: sapere che l’autrice del saggio – apprezzato a livello internazionale – è un’italiana, mi dà particolare soddisfazione.

Qui sotto il video della TED Conference della Mazzucato (oltre 2.600.000 visualizzazioni).

Buona visione e buona lettura!

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La Società dei Makers di Gauntlett: recensione di Massimo CarraroIl titolo inglese di questo libro vale già un post: “Making is connecting“.

Come dire: chi costruisce, costruisce anche relazioni. (Sul titolo si è già espresso benissimo Luca de Biase, qui).

Mi capita di occuparmi, per lavoro, di gente che fa cose con le mani, e leggere un saggio che mette in relazione l’attività manuale con la comunicazione, per me che mi occupo  di questo, è un gradito “unire i puntini”.

Ma non è solo il mondo della comunicazione – o meglio delle relazioni – che emerge dalle pagine di Gauntlett, ma anche l’arte, l’architettura. l’editoria, l’information tecnology, il valore delle reti sociali, StarWarsUncut e la ricerca di senso come fonte di felicità.

Tutti mondi che esercitano – visti con gli occhi di Gauntlett – un fascino speciale, che nasce dal lavoro di chi fa, e non dalle chiacchiere di chi dice.

Che poi “il mondo di chi fa” possa diventare un mondo di chiacchiere, magari gonfiate dai media – come è naturale che succeda a un fenomeno sulla cresta dell’onda come quello dei makers – va accettato come un piccolo prezzo da pagare per la notorietà di queste ottime idee, di cui tanto si discute.

(Preferisco sempre che si parli troppo di una cosa che mi piace, piuttosto che non se ne parli per nulla).

Così, mentre aspetto che i makers e i loro stimolanti maker spaces incontrino il mondo del coworking, a me caro, mi soffermo su un caso raccontato da Gauntlett che sento molto vicino: quello del blogger inglese che si è obbligato a scrivere un post al giorno come atto d’amore verso la sua sconfinata collezione di dischi, che rischiava altrimenti di venire dimenticata da tutti, e da lui stesso per primo.

Così David Jennings decise: ogni giorno un post, dedicato a un disco.

Parlo di questo perché dal 2007 in poi, per un  periodo di circa due anni, qui su OhMyMarketing – pur senza collezione di dischi da raccontare – il sottoscritto si è assegnato un compito analogo: making posts… to connect.

Un post al giorno, per connettermi a nuove idee e nuove relazioni: lo scrivere come “atto del fare” per poter superare un po’ se stessi e raggiungere qualcos’altro, qualcun altro.

Il libro in una frase:

In un’epoca in cui il senso delle cose si va smarrendo, Gauntlett ci invita a guardarci le mani e a ricordarsi che servono sia a costruire qualcosa sia a stringere quelle degli altri.

Appuntamento stasera a Varese per incontrare l’autore!

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La Società dei Makers di Gauntlett: recensione di Massimo Carraro

Ogni tanto mi arriva un libro sul comodino. A volte è di marketing, a volte di comunicazione.

A volte, come in questo caso, arriva tramite collegamenti professionali (ho la fortuna di lavorare con Stefano Micelli, autore della prefazione, che me lo ha consigliato).

Una volta terminato, mi esercito a scrivere qualche pensierino – e a tracciare una sintesi della lettura in una sola frase.

L’esercizio di leggere e poi raccontare, questa volta lo farò su “La società dei makers” di David Gauntlett, che per la verità in inglese ha un altro, bellissimo titolo:

Making is connecting

(Il link porta al sito di Gauntlett). A presto!

E se siete curiosi di saperne di più, qui sotto ci sono i 4 video in cui Gauntlett il perché e il percome del libro, in 9 minuti circa.

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Internet è il nemico: recensione di massimo Carraro su Oh My Marketing

E’ passato un sacco di tempo da quando dissi che avrei scritto le mie impressioni su “Internet è il nemico”, ma questo non significa che il libro mi abbia annoiato o mi sia dilungato nel leggerlo.

Al contrario, nonostante una struttura un po’ singolare (si leggono le discussioni sulla Rete di Assange con tre attivisti della libertà dell’informazione online), la lettura mi ha affascinato.

Poi è emerso il Datagate, il caso sollevato dall’analista Edward Snowden, che – guarda caso – sembra confermare con la brutalità della testimonianza diretta (per chi non lo sapesse, ricordo che Snowden ha fornito molte notizie inquietanti sulla pervasività delle informazioni assunte dalla NSA, l’agenzia per la sicurezza del governo americano, oltre ogni rispetto della privacy e senza alcuna autorizzazione) quello che un po’ tutti abbiamo pensato, in qualche momento:

E cioè che i nostri dati online sono visti, registrati, schedati (e la lista dei verbi potrebbe continuare in modo sgradevole, citerei solo “vendere” per esempio) da una moltitudine di soggetti, dai governi nazionali alla multinazionali a… chiunque ricco o potente abbastanza da potersi permettere di acquistare tali informazioni.

Certo, il mio è uno sguardo superficiale su una questione che più complessa non potrebbe essere, ma in fondo vengono in mente le parole di Pasolini quando, parlando delle stragi di stato, diceva:

Io so i nomi dei responsabili (…). Solo che non ho le prove.

Se pensiamo come sono inadeguate le leggi sulla privacy rispetto alle effettive realtà della Rete.

Se pensiamo come sono inadeguati i decisori e i legislatori rispetto al progresso tecnologico.

Se pensiamo come siano assurde le leggi italiane quando si tratta del web (provate a fare un concorso online se non ci credete).

Se pensiamo ai mostruosi interessi economici, politici e di ogni genere dietro la “fame di dati personali”.

Se pensiamo alla potenza e alla raffinatezza degli strumenti tecnologici attuali (e alla loro evoluzione continua).

Se pensiamo alle parole di Eli Pariser su “The Filter Bubble“:

Se su Internet stai usando un servizio che non costa nulla, significa che il prodotto in vendita sei tu.

Se pensiamo a tutto questo forse lo sappiamo tutti.

Solo che non abbiamo le prove.

In ogni caso, il libro vale la pena di leggerlo, anche per lo sguardo da insider che offre sul mondo degli hacker, sulla loro etica, sulla loro visione del mondo.

In fondo Internet l’hanno fatta loro..

…e l’hanno fatta per tanti motivi, compreso che era divertente. Poi aziende come Google e Facebook hanno costruito modelli commerciali basati sulla cattura dei dati personali degli utenti. (pag. 71).

Tra le tante cose per cui vale la pena di leggerlo:

– la rassegna dei sistemi per la conservazione dei dati a disposizione di governi ed organizzazioni (sempre di più, a costi sempre inferiori)

– il punto di vista critico sulla strumentalizzazione mediatica di temi quali il terrorismo,  la pornografia, il riciclaggio e la guerra alla droga – i cosiddetti “cavalieri dell’infocalisse” – per far passare provvedimenti liberticidi e incostituzionali

– [su una nota più leggera] il curioso spaesamento di questi abilissimi informatici che, dopo aver passato le vita a trovare sistemi per criptare dati e identità, si vedono centinaia di milioni di persone spiattellare le loro vite sul social network di turno

Infine, il libro in una frase, come provo a fare sempre:

Se pensate che il grande fratello sia qui, proprio qui dove io e tutti voi scriviamo, e dove io e tutti voi leggiamo, forse pensate giusto. Ma cerchiamo di non perdere la fiducia: forse la notizia che il giornalista del Guardian che ha fatto scoppiare il Datagate è sul punto di lanciare una piattaforma di giornalismo investigativo con il finanziamento dal boss di Ebay Omidyar ci dice che, nella Rete,  qualche anticorpo forse c’è.

Buona lettura, e speriamo bene.

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Libro Assange Internet è il Nemico OhMyMarketing

Julian Assange dice che nelle vene degli stati scorre forza coercitiva.

E che Internet, da utopia per un mondo migliore, si è trasformata nel nemico.

Il libro si presenta sotto forma di una chiaccherata con tre attivisti della rete accomunati ad Assange sia per WikiLeaks, sia per un comune sentire sui temi della libertà di informazione: Jacob Appelbaum, Andy Müller-Maguhn e Jérémie Zimmermann.

Appuntamento tra qualche giorno per la solita mini recensione!

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Recensione The Filter Bubble

Mi sono interessato a “The Filter Bubble” dopo aver letto l’articolo di Marco Massarotto uscito nell’agosto scorso su Chefuturo!

Sul libro  – pubblicato in Italia da Il Saggiatore con il titolo “Il Filtro” – è stato scritto molto, e leggendo la recensione di Luca De Biase ho scoperto quelle di Cory Doctorow su Boing Boing, Evgeny Morozov sul New York Times e Jacob Weinsberg su Slate.

Il libro è un’analisi di ciò che il web potrebbe rappresentare ( oforse rappresenta già) per tutti noi: non più occasione di crescita, aperta e condivisa, ma filtro, filtro pernicioso e strumento di differenziazione informativa, quindi – in ultima analisi – di discriminazione.

La tesi è che su Internet sempre più ci viene mostrato solo ciò che attiene ai nostri interessi – cosa che rendiamo nota attraverso ciò che pubblichiamo e i siti che visitiamo – e tutto questo finisce per creare una enorme distorsione nella nostra percezione della realtà.

Questo non solo da parte nostra, ma anche da parte di chi gestisce le informazioni, e le propone/vende ad altri, suggerendo implicitamente conclusioni sul nostro conto non  corrette.

Un esempio? La faccio un po’ sempliciotta, ma non credo di sbagliare di molto:

Secondo Pariser, se su Facebook sono amico di qualcuno che ha avuto problemi a rimborsare un pagamento rateale, un ente finanziario che utilizza banche dati provenienti dalla rete potrebbe ritenermi un cattivo pagatore, e rifiutarmi un credito, sulla base di queste evidenze.

Non male, no?

Eli Pariser ha vissuto tutto il web “bello”, facendo della rete lo strumento del suo attivismo civile, in qualità di fondatore del movimento americano Move On, e da  conoscitore delle dinamiche della rete vi ravvisa oggi (anzi, vi ha ravvisato nel 2011, data in cui è uscito il libro) dei pericoli piuttosto sostanziali.

Per difendersi da questa “bolla”, il sito filterbubble.com suggerisce, in un post del 2012, dieci cose che è possibile fare, mentre qui trovate alcuni suggerimenti di Vincenzo Cosenza.

Non so dire se il libro racconta uno scenario potenziale o descrive qualcosa di già reale; devo dire che, sommando la paurosa quantità di informazioni che immettiamo in rete tutti i giorni all’appetibilità di questi dati sul mercato, riesce difficile credere che il web si mantenga quell’ambiente aperto e libero come molti di noi amano credere.

Pariser racconta molto bene le sue tesi, e davvero questo libro fa riflettere, tanto più si è presenti in rete.

Tra le molte cose che mi sono piaciute, la carrellata sull’etica hacker – vera e propria matrice culturale di un preciso modo di pensare la Rete – e i tentativi di approfondire la conoscenza di quanto davvero Google potrebbe “farci male”, se volesse (fa impressione il passaggio dove Pariser fa capire, in modo nemmeno troppo velato, che forse certi aspetti sfuggono al controllo anche all’interno della stessa big G).
Da qui nasce spontanea la domanda: come essere sicuri di essere al sicuro?

Di seguito trovate anche il video della  presentazione al TED, mentre questo è il libro in una frase, come faccio sempre:

Se su Internet stai usando un servizio che non costa nulla, significa che il prodotto in vendita sei tu.

Come dicevano nel film omonimo, good night and good luck.

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Dopo aver letto questo articolo, ho subito ordinato The Filter Bubble di Eli Parisier.

E se volete un’anticipazione, guardate questo video del suo autore.

9 minuti che possono cambiare il vostro rapporto con il web, l’informazione, le relazioni. Praticamente con la vita.

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Sono tanti i motivi per cui penso che dovremmo tutti andare a mettere un chiodo nel nuovo #divanoXmanagua di Berto Salotti – cliente della mia agenzia, lo dico subito.

Mi pare quasi un dovere, partecipare a questo progetto di “costruzione condivisa” di un prodotto, con finalità formative verso i nostri giovani, e solidali verso i giovani di una parte sfortunata del mondo… ed ecco perché.

– Perché la co-creazione è uno dei punti fermi del marketing come si fa oggi, e dei nuovi scenari di consumo (son passati sei anni da quando l’ho letto la prima volta su Marketing Reloaded)

– Perché è un modo di valorizzare il lavoro artigiano italiano, in modi lontani dalla retorica (fare, non parlare) e dagli stanchi modelli del Made in Italy

– Perché punta sul futuro: il team di lavoro sarà costituito da tutti coloro che vorranno partecipare, ma avrà una componente fissa di studenti futuri artigiani + maestri con 40 anni di esperienza

– Perché ha un’anima solidale, prevede infatti di vendere il divano all’asta e devolverne il ricavato – tramite Terre des Hommes Italia – a una scuola per falegnami in un luogo dove i giovani non lottano solo per il lavoro, ma anche per la legalità, i diritti di base e spesso la vita stessa: il Mercado Mayoreo di Managua (Nicaragua)

– Perché aiuta l’economia di un territorio che ha data tanta ricchezza e lustro all’Italia, quindi a tutti noi: la Brianza

– Perché tutto questo viene da un’azienda, ed è straordinario, a mio parere, che ci siano imprenditori capaci di innovare – insieme al proprio business – pezzi di società che in un mondo ideale dovrebbero essere di area pubblica, per quanto incidono su economia, formazione, attenzione al territorio

Questo per dire che il 31 gennaio a Meda – e in tutte le successive date – la mia presenza non sarà solo professionale. E’ la fortuna di avere un lavoro che piace, e dei clienti che lo sanno valorizzare 🙂

Ora vi lascio con le parole di Paolo Ferrara, di Terre des Hommes, che vi descrive l’operazione.

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Vi ricordate “Il mondo è piatto“?

Se non ve lo ricordate, rileggetelo.

Se non l’avete letto, leggetelo.

No, non sono diventato un dogmatico impartitore di ordini, ma quando un libro è capace di darti una nuova visione della vita e del lavoro, io penso che quel libro vada letto.

Ora, durante un recente viaggio negli Usa ho scoperto che lo stesso autore – uno che vince Premi Pulitzer come io vado al bar a Lambrate – ha scritto, insieme a un professore della Johns Hopkins University School, un libro sulla crisi degli Stati Uniti, sulla loro scellerata leggerezza degli ultimi due decenni, sulla disastrosa situazione in cui si trova la loro economia.

In sintesi, sullo stato di cose che ha fatto dire al presidente Obama:

It makes no sense for China to have better rail systems than us, and Singapore having better airport than us. And we just learned that China now has the fastest Supercopmputer on Earth – that used to be us.

(Ed è così che si chiama il libro, That used to be us).

E io che c’entro, direte voi?

C’entrate, perché anche voi avete paura di perdere il lavoro, a causa di cose tipo, chessò, che il debito pubblico americano è nella mani dei cinesi. O temete che vostro figlio finisca a servire Dim Sum in un fast food cinese.

E Friedman si sofferma anche su queste cose (ed è questo che gli fa vincere i Pulitzer, secondo me: che mentre leggi i suoi saggi capisci che parla di te).

E arrivo alla mia abitudine di sintetizzare il libro in una frase, traendo spunto da una pagina che ho citato anche sul blog BertoStory:

Come faccio a gestire il mio futuro, la mia professione, il mio posto di lavoro in un mondo che cambia freneticamente, dove tutto ciò che può fare una macchina… è solo questione di tempo – lo farà lei al posto dell’umano che lo fa ora, come devo fare per difendere il mio lavoro o cercarmene uno?

Friedman-Mandelbaum suggeriscono tre atteggiamenti mentali:

1.
Pensa come un immigrante, cioè: non dare nulla per scontato, fai grande attenzione al mondo intorno a te, impara continuamente

2.
Pensa come un artigiano, cioè: metti un tocco personale, uno stile unico in tutto ciò che fai, e vanne fiero; comportati come se ogni cosa fatta da te portasse le tue iniziali

3.
Pensa come una cameriera, cioè: anche se il tuo lavoro non ti permette interpretazioni, se sei un esecutore, trova il modo di aggiungere un extra, come quel cameriere che ti porta la braciola con un contorno abbondante e ti dice “ti ho messo un po’ più di patatine”, segno che si è chiesto come poteva, nell’ambito limitato del suo lavoro, creare una differenza per sé

In sostanza: cercate fare quello che una macchina non potrà mai fare.

E buona fortuna.

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L’ho letto, l’ho riletto, poi l’ho regalato. L’ho consigliato, l’ho fatto leggere. Ne ho comprati ancora, che ho dato ai miei collaboratori. Un giorno che avevo un dubbio, ho comprato al volo la versione ebook, e poi ho messo in giro anche quello.

Ho portato con me questo libretto per quasi tutto l’anno (era il 1° marzo quando lo misi sul comodino), e ancora adesso è qui accanto al mio computer, sulla cui scrivania è peraltro ben piazzata anche la copia digitale, in pdf.

Per me, il bello del lavoro online ha molto a che fare con l’estendere la rete.

Con questo intendo dire che sono particolarmente attratto dai modi, lavori, opportunità di portare rete dove non c’è.

“Portare rete” significa anche usare strumenti nuovi, strumenti in grado di modificare i modi in ci ci si relaziona l’uno con l’altro, e Twitter – come sa bene chiunque si sia mai avvicinato a questo social network – è così diverso da risultare addirittura spiazzante.

In tutto questo, un libro come quello di Federica Dardi,  aka @elisondo è un bell’aiuto: insegna, spiega, avvicina, aiuta, accompagna, suggerisce, risponde, stimola, diverte.

Personalmente, è l’approccio che preferisco, quello più utile a chi con queste cose ci lavora (come il sottoscritto) ma anche più corretto verso chi queste cose le vorrebbe mettere nella giusta prospettiva: quelle di strumenti utili a farci qualcosa…

Insomma, alla domanda tipica di chi non riesce a “entrare” nello spirito di Twitter, ora c’è una risposta: un libretto blu edito da Apogeo e scritto da una blogger che ama i libri e ne studia presente e futuro.

Dimenticavo… la mia solita frase che riassume il libro:

Prima di giudicare frettolosamente un modo di comunicare che avvicina  qualcosa come 460.000 persone al giorno tutti i giorni, concedetevi il lusso di capirlo in un modo che non richiede nessuna fatica: un libro scritto bene.

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