Cos’è per noi un copywriter.
Dopo aver scritto cos’è per noi un art director, qualcuno mi ha sollecitato sul tema copy.
Ho fatto finta fosse già previsto… quindi eccomi qui.
Vorrei premettere che non so se il copy stia vivendo le stesse evoluzioni professionali dell’art director o del responsabile produzione stampa, di cui ho già cianciato, dovute soprattutto all’evoluzione delle tecnologie disponibili.
Vedo il copy in un ruolo più concettuale, e per questo meno esposto agli effetti della tecnologia (in senso operativo, non nel senso dei nuovi media e delle loro possibilità espressive).
La mia prospettiva sul copywriter, inoltre, è poco distaccata e per niente lucida perché… parlo di me.
Ma basta con le mani avanti: cos’è un copywriter in questo stordito monkey business della pubblicità?
Prima le cose di sempre, sacrosante e indiscutibili: sa parlare e scrivere tutte le lingue (del cuore non del passaporto), scrive bene sia prosa che dialoghi, ha una curiosità ossessiva per la pubblicità in tutte le sue forme, ha letto Pirella e Barbella, oltre che Bernbach , Ogilvy e Séguela, crede nella parola, ha un innato rispetto per le persone, è corretto ed obiettivo nelle argomentazioni (sa che la pubblicità non può permettersi di ingannare), è animato da motivazione granitica, è bravo ad ascoltare, è pronto a lavorare molto, sa fare una campagna anche da solo, sa visualizzare dei concetti, riesce a dare il meglio con un art director… (certe le ho copiate da Ogilvy on advertising, chi non l’ha letto alzi la mano – e vada a leggerselo).
La mia esperienza diretta di tutto questo (primi 10 anni della mia vita lavorativa) è stata la base di tutto ciò che è venuto poi. Nel senso che sono diventato un copy, e non ho più smesso di esserlo.
E il copy continuo a farlo. Con questo intendo dire che non sono un imprenditore che fa il copy, ma un copy che fa l’imprenditore.
Tutta questa autoreferenzialità è sgradevole, lo so, ma mi serve a dire che essere un copy può avere un valore, anche fuori dall’agenzia, anche oltre l’orario di ufficio.
Perché uno non smette di essere un copy quando esce dall’ufficio (quelli sono impiegati, i copy sono un’altra cosa).
Mi sto intortando?
L’avevo detto che non ero tanto lucido e obiettivo. Ma arriva il colpo d’ala:
Il copy vive la vita come linguaggio.
Per questo sa impiegare il suo talento naturale (e anche coltivato, naturalmente) in ogni fase della sua esistenza nonché ogni momento della sua giornata.
Ecco perché per noi, il copywriter è una specie di animale con un fortissimo istinto di comunicazione, sia che scriva un radio sia che ne butti giù il rational, sia che faccia una campagna su 6 media diversi sia che telefoni all’assistente del direttore marketing per un’informazione sul brief. E’ uno che si è tatuato la frase non si può non comunicare nel cervello. That’s it. Forever.
Il copy che è in me mi ha aiutato innumerevoli volte, finito il suo lavoro in senso stretto, a:
– trovare clienti
– dirimere situazioni controverse (anche pseudolegali)
– dialogare con gli amministrativi esecutori degli ordini di pagamento
– ottenere informazioni di qualsiasi tipo
– trovare il tono di voce adatto nel rapporto con i clienti (importantissimo)
– avere visibilità sui media
– gestire il progress lavori
– negoziare compensi
– stipulare contratti
– delineare piccole strategie e spunti di marketing
– comprendere (attraverso l’ascolto attento) le esigenze di clienti e collaboratori
– gestire contestazioni
– individuare aree promozionali per i clienti
– aprire linee di credito
– creare passaparola
– migliorare il livello qualitativo dei rapporti
– scrivere un blog (!)
Insomma, il copy può dare tantissimo oltre a quello che istituzionalmente ci si aspetta da lui/lei.
I miei rispetti a coloro che impiegano il loro talento di copywriter lavorando full-time su brief e campagne.
La mia simpatia e massima stima a chi usa combinazioni di parole anche per aprire le mille casseforti della vita.